Riflessioni minime sul (e al) limite.

La crescita economica non può essere illimitata per via della limitata capacità portante del sistema terra (carrying capacity).

 

Nel 1968, un illuminato imprenditore italiano, Aurelio Peccei, fondò, insieme ad uno scienziato scozzese (Alexander King), il Club di Roma. Si tratta di una associazione non governativa e no-profit costituita da economisti, scienziati, imprenditori e ricercatori, animati dall’intenzione di indagare i grandi cambiamenti globali in atto nella società ed il loro impatto sull’economia, l’ambiente e le relazioni sociali, portandoli all’attenzione delle istituzioni politiche. 

Nel 1972 venne pubblicato un saggio intitolato “The Limit To Growth” (anche conosciuto come Rapporto Meadows) scritto da un gruppo di economisti del MIT, proprio su commissione del Club di Roma. Tale rapporto conteneva alcune previsioni – svolte grazie un rigoroso utilizzo di conoscenze ma anche dei primi strumenti informatici – dell’impatto che il modello di crescita economica in corso avrebbe avuto su: economia, ambiente e popolazione. Fu analizzato l’andamento storico di alcune variabili quali risorse naturali e inquinamento, produzione di beni/servizi e di cibo, tasso di crescita della popolazione; delle stesse vennero poi simulate le traiettorie di andamento che portarono a conclusioni abbastanza pessimistiche: se si fosse proseguiti con quella progressione si sarebbe andati incontro ad un vero e proprio tracollo dell’economia (tasso di produzione industriale e di cibo) ed un collasso della crescita demografica.  

Fu posta particolare attenzione al concetto di limite riferito all’ambiente: la crescita economica non può essere illimitata per via della limitata capacità portante del sistema terra (carrying capacity), ovverosia la capacità di sostenere il benessere di un determinato numero di persone senza che si verifichino mutamenti irreversibili nel processo di rigenerazione delle risorse naturali rinnovabili e nell’assorbimento di rifiuti ed emissioni di origine antropica. Si auspicò pertanto un cambiamento nei comportamenti umani ed un approccio nuovo allo sviluppo economico che avesse come obiettivo l’equilibrio fra crescita economica e demografica.  

Il libro vendette circa 12 milioni di copie e fu tradotto in più di trenta lingue. Il dibattito e le polemiche che ne scaturirono a livello accademico furono notevoli e, nonostante una buona parte di studiosi lo liquidarono come una profezia apocalittica, si fa risalire a quel momento storico la nascita delle due principali interpretazioni del concetto di “sostenibilità: 

  • Teoria economica ecologica (con Nicholas Georgescu-Roegen, padre teorico del concetto di “decrescita”): prevede una interpretazione più forte dei principi della Termodinamica a cui anche l’azione economica è assoggettata e da cui viene quindi limitata;  
  • Teoria economica ambientale: caratterizzata da una interpretazione meno radicale dei vincoli naturali allo sviluppo economico.  

Il concetto di limite allo sviluppo, così come posto dal rapporto Meadows e sostenuto in particolare da N. Georgescu-Roegen, rappresentò nel corso degli anni 70’ un elemento cardine di tutte e riflessioni in ambito economico.  

In quello scenario storico culturale cominciarono ad organizzarsi i primi eventi e le prime conferenze sul tema della sostenibilità: nell’aprile del 1970 si tenne il primo Heart Day negli USA e nel 1972 venne organizzata a Stoccolma la prima conferenza internazionale dell’ambiente ONU. Certo, si trattava ancora di eventi programmatici e di generale sensibilizzazione rispetto al carattere globale ed internazionale di problematiche che evidentemente richiedono sforzi comuni per essere gestite. Prima di arrivare ad accordi giuridicamente vincolanti per i paesi firmatari bisognerà comunque aspettare altri 30/35 anni: la Conferenza sul Cambiamento Climatico del 1997 organizzata a Kyoto ed il relativo Protocollo entrato in vigore solo nel 2005.  

Nel frattempo, l’osservazione nel corso dei decenni successivi dell’andamento dell’economia reale ha evidenziato che, su diversi indicatori, le previsioni del gruppo di studiosi del MIT erano sostanzialmente esatte.  

Guardando i dati World Bank sull’andamento del PIL mondiale dal 1961 al 2019, si vede che il modello economico di crescita cosiddetto “lineare”, basato sullo sfruttamento di combustibili fossili, ha portato ad una crescita economica senza precedenti. Tale sviluppo è stato accompagnato da un progresso tecnologico e sociale rilevante, soprattutto negli ultimi 30 anni con l’incremento delle tecnologie informatiche. Per la prima volta nella storia si è verificata la cd “convergenza economica”: vaste aree di Paesi in via di sviluppo, hanno iniziato a crescere più velocemente dei Paesi sviluppati. L’aumento globale della popolazione (secondo l’ONU nel 2050 la popolazione mondiale sarà pari a 9,8 mld), l’esplosione della classe media (soprattutto nei Paesi del sud est asiatico) e la riduzione della povertà globale (la FAO prevede che, sempre nel 2050, ci sarà un aumento del fabbisogno di cibo del 70%), completano uno scenario non necessariamente e completamente negativo.  

In questo contesto di forte dinamicità appare tuttavia sempre più chiaro che il prossimo grande cambio di paradigma che la società dovrà attraversare per assicurarsi la prosperità entro i limiti imposti dalla carrying capacity del sistema Terra, sarà di accettare l’idea della limitatezza delle risorse. 

Guardando infatti ad un’altra importate serie storica – quella dell’Earth Overshoot Day dal 1970 al 2019 – vediamo che ad una tendenza di costante crescita del PIL corrisponde un crescente sfruttamento delle risorse naturali del pianeta. Definito come il giorno in cui la biocapacità del sistema terra (ovvero la capacità di rigenerazione delle risorse rinnovabili e di assorbimento di rifiuti ed emissioni) non è più sufficiente a sostenere l’impronta ecologica globale della popolazione vivente, si osserva che se nel 1970 le risorse della terra bastavano a sostenere i bisogni annuali di tutti gli individui viventi, nel 2019 sono state necessarie le risorse di 1,6 Terre: stiamo quindi prendendo “in prestito” risorse dalle generazioni future.  

In occasione del cinquantennale del rapporto The Limit To Growth, è apparsa su Wired US il 6 luglio un’interessante intervista a Carlos Alvarez Pereira, vicepresidente del Club di Romae uno dei curatori del nuovo libro Limits and Beyond: 50 Years on From The Limits to Growth, What Did We Learn and What’s Next?” (A 50 anni da I limiti della crescita, cosa abbiamo imparato e cosa succederà?). Al centro dell’articolo alcune interessanti osservazioni sulla forma che sta prendendo il futuro, su cosa sia cambiato a 50 anni dalla pubblicazione del libro originale e su come l’umanità potrebbe correggere la rotta.  

Così Pereira commenta il tipo di reazioni che seguirono alla pubblicazione del rapporto Meadows:  

Fu inquadrato come una profezia dell’apocalisse. Non siamo riusciti a trasmettere il messaggio che non si trattava di questo. Il punto era: abbiamo la capacità di scegliere. Abbiamo, come umanità, la capacità di decidere che tipo di futuro vogliamo“. 

Al quesito posto dall’intervistatore se, a cinquanta anni dal rapporto originale, siamo sulla strada giusta per il cambiamento auspicato:  

“No, se guardiamo alla realtà. E no, in particolare, se ci limitiamo a guardare a ciò che fanno i governi e le aziende, se guardiamo alle scelte di chi prende le decisioni e ai sistemi di governance che abbiamo, sia nazionali che globali. Non siamo migliori in termini di inquinamento, perché c’è il riscaldamento climatico, un problema esistenziale. Non siamo migliori in termini di biodiversità. Non lo siamo in termini di disuguaglianza. Ci sono quindi molte ragioni per dire no.” 

In effetti, la considerazione che ormai mi torna spesso in mente – soprattutto da quando sto approfondendo più nello specifico i diversi aspetti legati alla sostenibilità ESG – è la seguente: nonostante siano temi sui quali si dibatte e si discute da più di 50 anni, si fa ancora tanta fatica ad accettare e convivere con un certo concetto di limite 

Se guardiamo alla nostra quotidianità come cittadini, sono diversi i “nuovi” comportamenti e/o abitudini più o meno indotti che ci hanno visti un po’ esitanti, quando non proprio contrari, come singoli individui prima e più ancora di società.  Penso, ad esempio, alla fatica ed alla resistenza sperimentata durante le prime fasi dell’introduzione della raccolta differenziata dei rifiuti domestici (metodologia, peraltro, sulla quale esistono ancora differenti stati di avanzamento anche all’interno degli stessi Paesi) piuttosto che alla pratica della circolazione a targhe alterne per favorire la diminuzione di particelle PM10 in atmosfera, ecc. 

 

Una spiegazione esaustiva e plausibile a questa evidenza è fuori dalla mia portata e certamente coinvolgerebbe diverse competenze e discipline; non so nemmeno se vi possa essere una risposta univoca. Ciò che è invece incontrovertibile, ciò che la cronaca drammaticamente ci restituisce con sempre maggiore frequenza, sono le tragedie determinate dalla preoccupante alterazione dei sistemi biofisici che costituiscono la capacità del sistema Terra di autoregolarsi: cambiamento climatico; perdita di biodiversità; alterazione dell’equilibrio del sistema delle piogge; inquinamento degli oceani.  

Per rimanere al nostro paese e agli ultimi due/tre mesi: la frana in Marmolada, l’emergenza siccità in molte zone della Val Padana, il costante aumento delle temperature medie stagionali e gli incendi incontrollati. 

 

In un lavoro molto importante pubblicato nel 2018, “L’utopia sostenibile”, Enrico Giovannini individua tre ingredienti fondamentali per realizzare lo sviluppo sostenibile ed evitare il collasso del sistema: tecnologia, governance e cambiamento di mentalità. 

Il cambiamento di mentalità risulta il più determinante e difficile da ottenere: dovrebbe avvenire attraverso una trasformazione della cultura e soprattutto dei modelli con cui si interpreta la realtà. Tra i cambiamenti auspicati, il parametro con il quale misuriamo la ricchezza dei Paesi: il PIL. Questo indicatore assume che i bisogni umani vengano soddisfatti dalla mera produzione e consumo di beni misurabili economicamente. A partire dalla fine degli anni Novanta, grazie al movimento d’opinione “oltre il Pil” che sosteneva tale criterio abbastanza riduttivo, è stata introdotta la nuova misura di Benessere Equo Sostenibile (BES) che si basa su 4 diverse forme di capitale che devono essere preservate nel loro mantenimento in ottica di equilibrio intergenerazionale: Capitale Economico, Capitale Umano, Capitale Sociale e Capitale Naturale 

Il modello di sviluppo proposto prevede quindi che le misurazioni non riguardino solo il valore dei beni e servizi prodotti in un dato anno (PIL) ma anche diverse variabili quali salute, reddito equilibrato tra vita privata e vita lavorativa, ambiente, ecc. In questo tipo di schema si introducono anche due parametri immateriali: felicità e resilienza che, sebbene non misurabili, influenzerebbero secondo molti osservatori lo stesso modello di sviluppo e la scala delle priorità nei bisogni umani.  

 

Ecco allora che un simile approccio ci permetterebbe forse di valutare le limitazioni ed il concetto di “limite” di cui abbiamo parlato non come rinuncia ad un soddisfacimento dei bisogni (siano questi “primari” piuttosto che connessi al nostro senso di autorealizzazione, quelli che Maslow poneva in cima alla sua piramide di stratificazione dei bisogni umani), ma come modifica di comportamenti (singoli ed aggregati) che ci permetteranno di evitare limitazioni che somiglierebbero fatalmente a vere e proprie privazioni. 

 

In questo ci è di conforto la nota positiva a conclusione dell’intervista a Pereira:  

 

Ma ci sono anche buone ragioni per essere ottimisti. (…) Siamo convinti che ci sia un cambiamento culturale in corso, spesso nascosto in bella vista. Molti stanno sperimentando, spesso a livello di comunità, cercando di trovare la propria strada verso quell’equilibrio, un benessere all’interno di una biosfera sana. Un cambiamento che mi fa ben sperare è quello della condizione femminile, del ruolo sempre più importante delle donne. E direi che anche guardando a ciò che sta accadendo con le nuove generazioni, c’è grande cambiamento 

Autore

  • Walter D’Alò

    Da più di vent'anni nel mondo dei servizi. Ho cominciato il mio percorso lavorativo in una società di credito al consumo per poi occuparmi, da 12 anni a questa parte, della proposta di servizi consulenziali alle imprese su temi legati agli incentivi ed agevolazioni. Ho avuto modo di approfondire e conoscere da vicino le logiche operative tipiche dell'industria manifatturiera alle prese con i cambiamenti e le rivoluzioni digitale 4.0 e "green".

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